Capita, nelle case, di imbattersi in racconti che sembrano fiabe e appunti di vita: piccoli colpi di fortuna, o meglio, di ingegno travestito da fortuna. Non è detto che sia tutto come lo ricordiamo ,  la memoria lima, aggiusta ,  ma i nonni parlano di un’Italia più scarna, sì, ma sorprendentemente inventiva. In quell’Italia la mancanza si piegava all’astuzia e i giochi, quando c’erano, nascevano da ciò che capitava sotto mano. Non si tratta solo di nostalgia: in quelle storie, per chi le ascolta, riaffiorano abitudini e valori che oggi rischiano di scomparire. Piccoli gesti sono diventati tradizione, o qualcosa di molto vicino.

Le storie di fortuna dei locali storici italiani

Nei locali con le pareti piene di fotografie ingiallite, a volte si raccontano vicende che paiono troppo perfette per essere vere. Prendiamo “Il Vero Alfredo” a Roma: si dice che tutto cominci nel 1908, con un piatto semplice ,  burro e parmigiano ,  preparato per dare forza alla moglie dopo il parto. Da lì, grazie al passaparola e a un’accoglienza che, secondo molti, faceva sentire chiunque un ospite di riguardo, le fettuccine prendono il largo. Il gesto d’amore presto si trasforma in un casino di richieste da ogni dove. Probabilmente la formula magica non era solo la ricetta, ma il modo di proporla: attenzione, sorriso e quella cura famigliare che ancora oggi molti giurano di percepire.

L’ingegno genovese e le ricette della fortuna

A Genova, c’è un’altra storia simile ma con carattere suo. “Zeffirino” non nasce tra caruggi, ma da una famiglia arrivata dalla campagna modenese che, a un certo punto, affina e diffonde il pesto come oggi lo immaginiamo. È stata forse una questione di tempismo, oppure di un basilico particolarmente profumato; poi arrivano i nomi grossi, Frank Sinatra, Pavarotti, e la specialità prende quota fuori dall’Italia. Non era solo cucina: era la miscela di tradizione ben custodita, mano felice e un modo di accogliere che rendeva la visita qualcosa di più di un pasto.

I giochi semplici di una volta

Prima il dovere, poi il gioco. Quando avanzava tempo, anche se poco, arrivava come un premio improvviso. Può sembrare povertà oggi; in parte lo era. I bambini tiravano fuori meraviglie dal nulla: campanelli suonati e fughe ridacchiando, ombre sul muro trasformate in teatrini, burattini fatti con stracci, corse giù per i prati fino a sbucciarsi le ginocchia. D’inverno, zoccoli e neve davano il via a scivolate che non avevano nulla da invidiare alle slitte moderne. Può sembrare una descrizione eccessiva, ma chi le ha provate spesso annuisce.

I giochi da cortile e le tradizioni rurali

Nel cortile, con il gesso alla mano, spuntavano “Settimana” o “Campana”: salti misurati, regole elastiche a seconda dell’arbitro di turno e discussioni continue su dove fosse caduto il sasso. Le carte tenevano compagnia dopo cena: berlicio, tresette, scala 40, scopa ,  con zii che fingevano di non barare, o forse ci provavano davvero. Dama e scacchi erano più rari, o riservati ai ragazzi “studiati”. In campagna, durante la raccolta, iniziavano gare non dichiarate: chi riempie prima il cestino, chi trova l’uovo più caldo ,  il lavoro era anche un pretesto per stare insieme.

La memoria che si tramanda

Queste storie non si trasmettono solo a voce: si attaccano alle cucine, ai quaderni macchiati di sugo, alle feste di paese. Ogni famiglia custodisce una ricetta segreta ,  la torta di pane della Valle di Muggio, ad esempio ,  o il racconto di un nonno emigrante tornato con due lire e un’idea che ha cambiato il corso delle cose. È una memoria imperfetta, ma proprio per questo viva: ci rimette in contatto con il territorio e con chi c’era prima di noi. E ricorda, sottovoce, che la fortuna a volte nasce da gesti minuti, quasi invisibili ,  quelli che rischiamo di non vedere finché non li perdiamo.

 

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